Giulio SavelliSiamo laici, antistatalisti, riformisti, democratici, liberali. D’accordo. Perciò lontani dalla cultura e dalla politica della sinistra. Siamo stati elettori dei candidati della Casa della libertà e, per la quota proporzionale, di uno dei partiti di questa coalizione. Ma, da liberali, rivendichiamo il diritto alla libertà di critica anche nei confronti della parte politica in cui ci riconosciamo. Non siamo tifosi della nostra squadra al punto da non vederne i falli e gli errori. Vogliamo serenamente (e modestamente) dire la nostra su quello che ci piace e su quello che non ci piace dei propositi e dell’attività del governo, delle giunte, dei partiti e degli uomini che ne fanno parte, convinti che un’intelligente critica può solo rendere migliore e più efficace la loro attività.
Sviluppare al meglio l’attività di governo è d’altra parte l’unico metodo per ottenere il consenso degli elettori al turno successivo: per questo, più che un diritto, esprimere le nostre critiche lo consideriamo un dovere. Diciotto mesi fa scrivevo queste parole, confessando la mia delusione per quanto il governo aveva fino ad allora realizzato. Altri diciotto mesi sono passati da allora e, salvo l’approvazione in prima lettura alla Camera di una riforma della giustizia, per la verità non malvagia, la delusione non solo permane ma è aumentata per il fatto che un altro anno e mezzo è trascorso invano. Delusione d’altra parte che è la vera causa della battuta d’arresto (non vogliamo dire sconfitta?) che Berlusconi in prima persona ha conosciuto alle recenti elezioni europee e amministrative.
Delusione per la politica fiscale. Sappiamo bene che l’11 settembre ha prodotto un rallentamento delle economie di tutti i Paesi occidentali e quindi anche del nostro. Non attribuiamo al governo la colpa della modesta crescita del prodotto nazionale, da un andamento diverso del quale ci si riprometteva quell’aumento del gettito che avrebbe consentito qualche abbassamento della pressione fiscale. Ma il fatto è che la pubblica amministrazione ha speso, nel 2003, il 47,52% del Pil, una cifra che, secondo l’ultima Finanziaria, quest’anno sarebbe dovuta scendere al 47,14%, ciò che (forse) avverrà solo per il fatto che il governo ha approvato venerdì scorso una manovra finanziaria che comprende anche nuove tasse. In attesa del nuovo Dpef, ricordo che le previsioni dell’anno scorso annunciavano una spesa pubblica corrispondente al 47,02% del Pil nel 2005, al 46,50 nel 2006, al 45,87 nel 2007.
Come si possa conciliare questo elevato livello della spesa pubblica con quel 33% di pressione fiscale (non di semplice riduzione delle aliquote Ire) che Berlusconi ha ripetutamente definito il contributo che il cittadino ritiene equo, indicandolo come obiettivo del governo, a me sfugge del tutto. La riduzione del prelievo fiscale presuppone la riduzione della spesa pubblica, in particolare della spesa corrente, per ottenere la quale nulla o ben poco è stato fatto. Altrimenti è demagogia. È riduzione dell’Ire per colpire con altre imposizioni o aumenti del debito, che equivalgono anch’essi a nuove tasse per il pagamento del servizio. La riduzione di qualche punto per i redditi più bassi, socialmente apprezzabile, finanziata con dodici condoni fiscali sulle materie più disparate, non appare l’inizio di una vera riforma fiscale: se non si interviene sulla spesa è difficile pensare che l’amministrazione possa ridurre le sue entrate.
Sono scomparse, tra l’altro, le ipotesi di drastica riduzione dell’incredibile numero di imposte e balzelli: si parla anzi di nuove tasse e si procede all’immancabile aumento dell’imposizione sui tabacchi (il pretesto, come al solito, è la salute dei cittadini). Sono aumentate, e di molto, le addizionali regionali e comunali: mi riesce difficile immaginare che i cittadini siano contenti se il saldo tra meno tasse allo Stato e più tasse agli enti locali implica che in complesso pagano di più. Si sono emanate nuove, apprezzabili, norme per la riduzione delle spese non obbligatorie dei ministeri, ma non si aggrediscono, nemmeno con un piano a lungo termine, nemmeno in prospettiva, i capisaldi principali della spesa: l’impiego pubblico, la previdenza, la sanità. Per quest’ultima si sono reintrodotti da parte di molte regioni i ticket improvvidamente aboliti dal governo di centro-sinistra (per la verità anche col voto di quella che era allora l’opposizione), ma ci si continua a cullare nell’illusione che lo Stato possa provvedere a fornire a tutti i cittadini tutte le cure, dall’aspirina al trapianto cardiaco: spiace dover rammentare che anche la salute, purtroppo, non può prescindere dall’economia e che dunque, anche conservando, come è giusto, il servizio sanitario nazionale, esso non può essere amministrato in modo diverso da un’assicurazione privata, anche se il premio è pagato dallo Stato.
Garantire l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini non implica peraltro l’esclusione dei privati dalla gestione del servizio, soprattutto quando i costi del servizio pubblico sono più elevati di quelli offerti dai privati. Per quanto riguarda la previdenza, stiamo per approvare una modesta riforma, i cui primi effetti si vedranno nel 2008, che non affronta la questione di fondo: eppure è a tutti chiaro che, con l’allungamento generalizzato dell’aspettativa di vita e una crescita demografica nulla se non negativa, il vecchio sistema a ripartizione è diventato insostenibile. La riforma prospetta come soluzione al problema la riduzione dei trattamenti futuri e l’innalzamento obbligatorio dell’età pensionabile: basterebbe invece legare la pensione a quanto effettivamente versato in forma di contributo e ciascuno potrebbe andare liberamente in pensione all’età che preferisce, ricevendo quanto gli spetta secondo le tavole attuariali, esattamente come fanno le imprese assicuratrici. Si potrebbe così realizzare una maggiore mobilità sociale, abolendo la condanna a rimanere per tutta la vita lavoratori dipendenti, una moderna forma di schiavitù del lavoro.
Un sistema, quello pensionistico attuale, che con la solidarietà non ha niente a che vedere. Pianificando a lungo termine una copertura fiscale degli impegni degli istituti di previdenza nei confronti di chi ha maturato un diritto, una soluzione solidale e finanziariamente definitiva dovrebbe prevedere una pensione minima uguale per tutti, finanziata con contributi obbligatori proporzionali al reddito (ecco la solidarietà) e una pensione integrativa finanziata con contributi volontari capitalizzati, come accade per esempio in Gran Bretagna. Ciò consentirebbe anche, attraverso i fondi-pensione, la fuoriuscita da un sistema capitalistico sostanzialmente familista com’è ancora quello italiano. Nulla è stato fatto per ridurre un apparato amministrativo pubblico di dimensioni elefantiache, se non la (rinnovata e raramente rispettata) proibizione di assunzioni nuove, non previste dalla pianta organica. Impiegati e funzionari che lasciano il lavoro per sopraggiunti limiti d’età vengono regolarmente rimpiazzati, mentre, anche grazie al possibile contributo del latitante ministero per l’Innovazione Tecnologica, si imporrebbe appunto la riduzione degli organici, sia con l’adozione di tecniche informatiche che riducono il carico di lavoro, sia con la auspicata restituzione ai privati e alle loro associazioni, in nome della sussidiarietà, di funzioni e compiti finora attribuiti alla burocrazia.
Per non dire delle nuove e gigantesche spese amministrative da mettere in conto qualora dovesse essere approvata la cosiddetta devoluzione. Sempre attuale (da trent’anni!) è il dibattito sulle riforme istituzionali e sul sistema elettorale. Presidenzialismo, cancellierato, elezione diretta del premier, proporzionale con sbarramento o con premio di maggioranza, doppio o unico turno, regionalismo, federalismo, devoluzione: le proposte si rincorrono e si contraddicono. Manca però un’analisi ragionata su quali siano le debolezze dell’attuale sistema istituzionale e le soluzioni appaiono perciò casuali ed estemporanee. Il sistema elettorale maggioritario vigente dal 1994 ha, almeno parzialmente, modificato il carattere “consociativo” della Costituzione del 1948, consentendo ai cittadini di scegliere direttamente da chi vogliono essere governati.
Ma, per un verso, in mancanza di un meccanismo di elezione diretta del capo dell’esecutivo, ha prodotto un inedito sistema bipolare “multipartitinico” e, per altro verso, a causa della mancanza di meccanismi democratici di selezione dei candidati (per esempio le primarie, peraltro non pensabili con l’esistenza di molti partiti di ben diversa forza all’interno di ciascuna coalizione; oppure regolamenti democratici controllabili nell’organizzazione dei partiti, che sono sì associazioni private ma di rilievo pubblico, tanto da godere di finanziamento statale; o almeno il doppio turno), ha reso onnipotenti le segreterie di partito: i parlamentari, più che eletti, sono di fatto nominati in ristretti conciliaboli sia nella quota proporzionale senza preferenze, sia con l’assegnazione di collegi sicuri, nei quali spesso il candidato non ha mai messo piede prima.
Non vogliamo tessere le lodi del vecchio sistema proporzionale, ma non si può negare che, con il vecchio sistema, i segretari di partito dovevano in qualche modo tener conto del consenso che ciascun possibile candidato riscontrava nell’elettorato: personaggi di un qualche rilievo non potevano essere esclusi dalle liste senza rischiare un danno per il partito nel suo complesso. Col nuovo sistema, il potere di candidatura dei gruppi dirigenti di partito è pressoché assoluto. E pensare che la “Seconda Repubblica” era partita in nome della lotta alla partitocrazia!
Il sistema uninominale avrebbe dovuto garantire un rapporto più stretto tra eletto ed elettori. Produce invece lo strano risultato per cui il candidato ha un ruolo sostanzialmente indifferente: secondo alcune ricerche solo il 5% degli elettori conosce il nome del deputato del proprio collegio; ancor meno, si presume, sono gli elettori che valutano, prima di esprimere il proprio voto, la figura del candidato, mentre la grande maggioranza vota per il partito o la coalizione di sua fiducia indipendentemente dal personaggio proposto.
Ne risulta uno scadimento della qualità del personale politico, non soggetto ad alcuna forma efficace di selezione: non conta l’intelligenza, la capacità, la storia personale, la competenza, l’onestà, la serietà; conta solo la fedeltà al partito. Certo, avere tra i propri candidati qualche personaggio di rinomanza e di prestigio accresce il consenso complessivo alla lista: ciò non toglie che, all’ombra di qualche candidato di valore, possano arrivare in Parlamento frotte di accomodanti chierici. I parlamentari, dovendo la loro elezione (e la loro eventuale rielezione) ai capi dei partiti, non hanno perciò autonomia alcuna: rare essendo le occasioni in cui il regolamento delle Camere consente il voto segreto, votare secondo coscienza o convinzione in modo difforme dal proprio partito è considerato quasi un delitto, punibile in casi estremi con l’espulsione dal partito, quindi con la fine della possibilità stessa di fare politica. Punizione, d’altra parte, comprensibile in un sistema nel quale il governo non solo dipende dalla fiducia delle Camere ma in cui, malgrado il dettato dell’art. 94 della Costituzione, il voto contrario di una Camera su una proposta del Governo o su un semplice emendamento appare una sconfitta di dimensioni tali da comportare l’obbligo di dimissioni.
Un sistema democratico liberale dovrebbe prevedere invece un bilanciamento e un reciproco controllo, tali che nessun organo istituzionale (e tanto meno paraistituzionale, come sono i partiti) goda di un potere assoluto: ogni potere dovrebbe essere soggetto al controllo di altri poteri, a loro volta soggetti a controllo, con un sistema di reciproca limitazione (check and balance). In una democrazia liberale non esiste sovrano, nemmeno il Parlamento. I poteri legislativo, esecutivo e giudiziario dovrebbero essere ciascuno autonomo e indipendente dagli altri due, pur traendo tutti la loro legittimazione dalla volontà del popolo, che si esprime attraverso il voto. In Italia, in parte per effetto della Costituzione scritta, in parte maggiore grazie alla Costituzione materiale - così come concretamente lo Stato italiano si è organizzato e sviluppato nel corso del sessantennio passato - il sistema dei partiti, nel complesso, è invece un vero e proprio sovrano.
Contro la volontà dei partiti non può levarsi la voce del Parlamento, composto per la grande maggioranza di deputati e senatori nominati, consapevoli che la loro “elezione” dipende dai partiti e che la loro protesta sarebbe sanzionata con la marginalizzazione e la successiva caduta. Contro la volontà dei partiti non può levarsi la voce della Corte Costituzionale, i cui membri sono anch’essi di nomina partitica, diretta o indiretta, e la cui ulteriore carriera, dopo la scadenza del mandato, ancora dai partiti dipende. Contro la volontà dei partiti non si leva la voce del Presidente della Repubblica, l’unico che per la verità null’altro deve aspettarsi dai partiti, poiché alla scadenza del mandato diventa automaticamente senatore a vita; ma che, per un verso, dai partiti è eletto e contro il quale, comunque, a evitar sorprese, i partiti si sono costituzionalmente garantiti rendendolo irresponsabile e privandolo di ogni effettivo potere. (Non è casuale tuttavia che, proprio a causa della sua relativa indipendenza, il presidente della Repubblica, nella storia repubblicana, si sia spesso trovato in conflitto con il sistema dei partiti, o abbia comunque esercitato un ruolo di intervento politico che travalica i poteri previsti dalla carta costituzionale: l’una o l’altra di queste considerazioni vale per tutti i presidenti, a partire da Giovanni Gronchi per finire a Carlo Azeglio Ciampi).
Una riforma seria dovrebbe cambiare il quadro che abbiamo descritto, aggredire l’assolutismo del potere partitico, tornare ai principî classici della democrazia liberale. Una riforma mai avvenuta per una causa precisa: la classe politica, che quelle riforme avrebbe dovuto fare, non ha interesse a farle. I partiti non hanno alcun interesse a cambiare la Costituzione perché quella attuale, quella scritta e quella materiale, hanno dato, nel loro complesso, alla classe politica del dopoguerra, la connotazione di una vera e propria oligarchia, hanno assegnato loro un potere assoluto.
Ma, come si diceva, (fortunatamente?) il nostro sistema è bipolare ma non bipartitico. Anzi, grazie all’utilità marginale (nella maggior parte dei casi lo scarto tra vincente e perdente nelle elezioni dei collegi è inferiore al 5% dei voti espressi), incentiva la formazione di nuovi partiti. Accade oggi in Italia al governo di centro-destra ciò che è avvenuto nel quinquennio del centro-sinistra: i partiti che compongono la coalizione vincente sono più preoccupati per la propria sopravvivenza che non del buongoverno dell’intera coalizione. D’altra parte è questa la conseguenza logica del sistema. I partiti minori hanno evidentemente una visibilità e un radicamento meno significativo dei grandi: se essi si comportassero, in tutto e per tutto, da alleati fedeli, se, in altre parole, mantenessero un comportamento non difforme da quello dei partiti maggiori che fanno parte dello stesso schieramento, al momento del voto successivo gli elettori non avrebbero motivo alcuno per dare loro il voto anziché attribuirlo senz’altro ai partiti maggiori.
Di qui la necessità vitale per i partiti minori di conquistare una propria visibilità differenziandosi dallo schieramento di maggioranza. Il sistema in sostanza (e se ne vedono i risultati) è così fatto che i partiti che compongono le coalizioni, di destra e di sinistra, per i primi tre anni della legislatura governano d’amore e d’accordo in virtù della scelta, sostanzialmente, di non fare niente: quieta non movere. Negli ultimi due anni prevale invece la necessità di posizionarsi in vista della successiva scadenza elettorale, di acquistare, come si dice, visibilità, o, se si preferisce, di dimostrare al proprio elettorato di non essere inutili. Di qui la conflittualità che caratterizza oggi la Casa delle libertà, analoga e simmetrica a quella che conobbe il centro-sinistra dopo il 1999. Di qui l’altra anomalia. A un Parlamento debole corrisponde un esecutivo debole. Cui si tenta di porre rimedio con altre proposte stravaganti: se cade il primo ministro si torna a votare, norma “antiribaltone”.
Ma allora perché non seguire la strada maestra del presidenzialismo, evitando il rischio di andare a votare ogni due anni, con buona pace degli auspici di stabilità di governo? Per non parlare del pastrocchio che si è fatto, si fa e si propone in nome del federalismo. Fosse per me, abolirei pure la parola (anzi la riserverei al dibattito europeo) e tornerei a parlare di decentramento amministrativo. Il centro-destra, per apparire più federalista del centro-sinistra ha approvato una serie di assurdità contenute nelle modifiche all’articolo 117 della Costituzione approvate. Secondo le nuove norme, tanto per fare qualche esempio, “le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva” in materia di “assistenza e organizzazione sanitaria”, di “organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione” e di “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione”, di “polizia locale”: ciò si legge ora all’interno dello stesso articolo che stabilisce che lo Stato ha il potere di “legislazione esclusiva” sulla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali - tra i quali v’è ovviamente il “diritto alla salute”, “fondamentale diritto dell’individuo”, come recita l’art. 32 - che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, sulle “norme generali sull’istruzione”, su “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”, che, come l’istruzione... con esclusione della istruzione e della formazione professionale” (riservate esclusivamente allo Stato) sono materie di “legislazione concorrente”.
“Per la contradizion che nol consente”, l’esclusiva non può essere di più d’uno, né l’esclusiva può conciliarsi con la concorrenza. Ma questo alla Lega non basta: vuole anche il Senato federale. Anche se in larga parte, essendo largamente finto il criterio in base al quale il senatore rappresenta effettivamente gli interessi della sua regione ed essendo i senatori in numero proporzionale agli abitanti di ciascuna regione, di federale il Senato ha solo il nome: verificare, per capire, i criteri diversi con cui in un Paese davvero federale, gli Stati Uniti, sono eletti rispettivamente Senato e Camera dei rappresentanti. A proposito di Stati Uniti: la loro Costituzione prevede, com’è ovvio, la supremazia della legge federale sulle leggi regionali quando queste contraddicono i diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione stessa. Da noi fa scandalo chi propone la stessa cosa. E la scuola? La formazione dei giovani è un interesse della collettività, oltre che dei giovani stessi e delle loro famiglie: una società con un alto livello di cultura e di preparazione professionale produce di più e meglio di una società di analfabeti: anche coloro che sono ai livelli più bassi di istruzione traggono beneficio dal fatto che altri hanno un livello culturale più elevato. Ma far discendere da questa premessa che si debba affidare alla scuola di Stato e alla sua didattica uniforme, sia pure arricchita da insegnamenti di interesse regionale (sic!), è illogico e contraddice alla cultura moderna. “Poiché i diplomi rilasciati da enti e da privati - scriveva già Luigi Einaudi - non hanno valore se non muniti del bollo dell’esame di Stato e poiché leggi e regolamenti prescrivono per il concorso ai pubblici impieghi, anche minimi, la presentazione di diplomi riconosciuti legalmente, se ne dedusse la conseguenza pratica che tutti gli istituti scolastici pubblici e privati debbono uniformarsi ai regolamenti governativi... gli istituti, i quali non soddisfano a siffatta condizione, sono disertati dagli allievi... non v’è istituto il quale non si adegui supinamente al tipo unico governativo”. Al di là di una formazione primaria, la scuola non ha bisogno né di rimodulazione dei cicli scolastici né di insegnamenti nuovi con venature culturali di centro-destra piuttosto che di centro-sinistra, tanto meno di censure preventive di burocrati sulla qualità dei testi adottati: la scuola ha bisogno di una profonda liberalizzazione, di concorrenza tra le diverse scuole, pubbliche o private che siano.
Occorre coraggiosamente abolire il valore legale del titolo di studio e consentire agli allievi e alle loro famiglie la scelta della scuola che ritengono migliore, attraverso il buono-scuola per quanto riguarda l’insegnamento obbligatorio, con autonomia di bilancio per quanto riguarda le università, pubbliche e private, finanziate dalle famiglie degli studenti, fermo rimanendo che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, grazie a “borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”, come recita la Costituzione.
Se dunque volessimo riassumere in un giudizio sintetico il senso delle critiche fin qui avanzate, potremmo dire non che il governo ha operato male, ma che la svolta in senso liberale che dalle elezioni del 2001 ci si aspettava non è avvenuta. Tutto ciò che è stato fatto appare in rigorosa continuità con il modo di governare che il Paese ha conosciuto non solo nel quinquennio precedente ma anche nella cosiddetta Prima Repubblica.
A una serie infinita di presunte “emergenze” si è risposto con rappezzi, provvedimenti improvvisati, decisioni estemporanee, misure tampone, una tantum, senza un disegno riformista che affrontasse i problemi strutturali del Paese. Ancora in questa legislatura, l’attività del Parlamento pare debba essere misurata dal bollettino che le presidenze delle Camere diramano periodicamente vantando lo straordinario numero di leggi approvate e lo stratosferico numero di votazioni eseguite, a dimostrazione che il Parlamento lavora (non è la sua funzione). Nulla invece è stato fatto per la delegificazione, per sbrogliare la matassa normativa più complicata dell’Occidente; nulla è stato fatto per rispettare la promessa di una nuova codificazione semplificativa. Nulla è stato fatto per risolvere l’anomalia di un sistema televisivo chiuso a ogni nuova iniziativa, se non la legge Gasparri, che consente di privatizzare piccole quote di minoranza del capitale della Rai mantenendone il controllo governativo, e che rende accessibili nuove frequenze quando ce ne sono centinaia in vendita se qualcuno potesse davvero investire in un mercato già saturo a causa del duopolio.
“Il bipolarismo all’italiana non funziona”, scrive giustamente Arturo Diaconale. Non funziona però non perché manchi “un’adeguata rappresentanza politica dei laici”, ma perché, semplicemente, manca la politica, la capacità di mediazione tra interessi e valori diversi ma non inconciliabili, per raggiungere sulle varie questioni un compromesso nel quale si possa riconoscere la maggioranza dei cittadini. Manca la politica perché mancano istituzioni adeguate. Non solo gran parte degli elettori, ma la maggioranza stessa dei parlamentari, sia della Camera sia del Senato, per fare un esempio su una questione cara a noi laici, era e rimane contraria alla legge sulla procreazione assistita: eppure quella legge è passata in omaggio alla tenuta della maggioranza politica della Casa della libertà. Al progetto del cosiddetto federalismo, tenacemente voluto dalla Lega, sono contrari (almeno) quattro quinti del Parlamento, eppure quel progetto va avanti, anche se dubito che arriverà definitivamente in porto. Questo è il prezzo che paghiamo al bipolarismo all’italiana. È passata da noi l’idea che le due coalizioni, formatesi per lasciar decidere agli elettori chi debba governare, debbano essere come due eserciti l’un contro l’altro armato, due filosofie, due visioni del mondo, guidati da generali onnipotenti. Appare anomalo, infido, potenzialmente traditore chi, nel centro-destra, condivide su alcune questioni posizioni sostenute anche da molti che militano nel centro-sinistra: sulla droga, per esempio, o sull’immigrazione, o sul conflitto di interesse. Mi chiedevo, da parlamentare, e mi chiedo ancora a che cosa serva il Parlamento se non per parlare (prima di votare); a che cosa serva parlare se non per cercare di convincere gli altri e a nostra volta convincerci delle ragioni altrui. Poi, certo, decida la maggioranza: poi, però, non prima. E la maggioranza non coincida pedissequamente con quella che sostiene il governo.
Il risultato delle elezioni europee e amministrative ha evidenziato il fatto che delusi sono ormai gran parte degli elettori del centro-destra. Che esso indichi “senza possibilità di equivoco” la necessità di costituire una “grande area liberal-socialista”, come affermato nell’Appello per la Casa Laica, a me sembra, francamente, quanto meno discutibile. Quel risultato, a me sembra, testimonia solo lo scontento dell’elettorato della Casa delle Libertà per quanto il governo ha finora realizzato. Ciò non pertanto è vero che i laici - liberali, socialisti democratici, repubblicani, radicali - sono in questo Parlamento fortemente sottorappresentati o addirittura assenti. Ed è giusto di conseguenza che essi aspirino a una adeguata rappresentanza. È quello che mi auguro anch’io e, nei limiti delle mie possibilità, sono pronto a dare un contributo.
Ma i laici (come d’altra parte i cattolici) non possono sfuggire alle questioni centrali della politica italiana, quelle cui ho fatto cenno e altre ancora. Non possono ricavarsi una nicchia laicista, come d’altra parte i cattolici non possono ricavarsi una nicchia confessionale, pena la marginalità. Forse potranno portare alla Camera un paio di deputati in più. Siano benvenuti, ma non cambieranno le cose. Se tra le preoccupazioni principali degli elettori ci fosse stata la legge sulla procreazione assistita, essi avrebbero potuto votare radicale, che la nicchia laica presidia bene. Ma non mi sembra che neanche i radicali abbiano avuto un risultato di cui essere soddisfatti. Mettiamola in un altro modo. Pensate che l’Udc abbia avuto un (modesto) successo elettorale per le sue battaglie in difesa della morale cattolica, o per il fatto invece che è apparso un partito moderatamente critico nei confronti del governo, fautore di un cambiamento di linea politica del centro-destra? Io sono convinto che una parte degli elettori di Forza Italia, delusi, se non avessero avuto la possibilità di esprimere un voto critico restando tuttavia all’interno del centro-destra, si sarebbero astenuti.
Questa a me sembra l’interpretazione corretta della tenuta o dell’incremento di tutti i partiti alleati e della pesante sconfitta di Forza Italia. Forte del successo, Marco Follini persegue nella linea politica che lo ha premiato, avanzando per il suo partito non rivendicazioni confessionali, ma proposte (modifiche del sistema elettorale, fine dell’interim di Berlusconi al Tesoro, moderazione del “federalismo” leghista, svolta nell’economia) su tutte e su alcune delle quali si potrà anche non essere d’accordo ma che affrontano il cuore delle questioni aperte, le vere difficoltà del centro-destra, non svicolano, non si rifugiano in una zona protetta.
Non c’è bisogno d’essere democristiani per condividere il metodo dell’Udc. Casini, Follini e Buttiglione hanno costituito un partito esclusivamente cattolico ed è normale quindi che i laici pensino a una propria organizzazione, a quella che “L’opinione” ha chiamato la Casa Laica, anche se l’esperienza di Forza Italia ha dimostrato che laici e cattolici possono convivere felicemente in uno stesso partito. La Casa Laica, però, può sperare di avere un futuro solo se si toglierà l’illusione che dirsi laici, scantonando, sia sufficiente per raccogliere voti se sarà capace di fare politica a tutto campo.
Stupisce che i laici, in un momento di acceso dibattito, di vere e proprie tensioni all’interno della coalizione di centro-destra, in un momento di crisi dal cui esito dipende la stessa possibilità di confermarsi maggioranza, parlino d’altro.
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