Giorgio MorinoNel 2004, Mark Zuckerberg lanciò online Facebook, sancendo l'inizio dell'era dei social network e rovinando per sempre la serenità mentale di chi, utente o meno, ci si confronta quotidianamente. Facebook è un 'muro', un velo che cela il volto degli utenti e, in questo modo, consente loro di esprimere fin troppo liberamente il proprio pensiero. Quando poi il mondo intero si trova ad affrontare una tragedia come i recenti attacchi terroristici che hanno insanguinato Parigi, l'utente medio di Facebook si scopre improvvisamente esperto analista geopolitico di illustre formazione accademica, nella speranza di dare credibilità al proprio profilo. Dal momento in cui le immagini degli attentati parigini hanno iniziato a invadere le nostre televisioni e i nostri incubi, l'universo digitale, popolato da italiani ben più che medi, ha iniziato a suddividersi in tanti piccoli microcosmi, ognuno con una propria specifica identità: il primo gruppo comprende gli anti-islamici a tutti i costi, che avendo come 'totem-guida' Matteo Salvini, Maurizio Belpietro et similia, si scagliano contro i credenti musulmani senza distinzione di sorta, con la radicata convinzione che essere islamico sia equivalente a un'adesione al Califfato; nel secondo gruppo troviamo invece gli 'antimperialisti', che togliendo dalla naftalina il movimento degli 'hippies' accusano a gran voce e genericamente l'occidente di aver sfruttato il Medio Oriente per i propri scopi, al fine d'impadronirsi del petrolio e affamare la popolazione. Di conseguenza, per questi paladini della giustizia, quello che sta succedendo sarebbe anche giusto, in un certo qual modo; al terzo posto troviamo invece i detrattori di Oriana Fallaci, un'inviata speciale che ha lasciato una traccia indelebile nel giornalismo italiano, grazie alla sua esperienza e ai suoi reportage. Detrattori che, prendendo qualche frase a caso dell'autrice fiorentina, si sentono in diritto di bollarla come 'guerrafondaia' e 'antimusulmana' tout court per aver scritto 'La Rabbia e l'Orgoglio'. Se il primo gruppo, quello dei 'salviniani estremi', non merita neanche di essere preso in considerazione, il secondo, quello dei nuovi antimperialisti, risulta poco convincente nelle sue asserzioni di base: questi attenti analisti non si rendono conto che la guerra, perché di guerra si tratta, va avanti almeno dagli anni '80 e coinvolge il mondo musulmano e le sue divisioni interne. L'Europa e, in particular modo, "l'occidente", come piace dire a questi intransigenti accusatori dei nostri peccati passati, è solo "un attore non protagonista" di questo dramma che coinvolge milioni di persone. Il passato coloniale europeo indubbiamente ha inciso sulle divisioni statali, spesso attuate senza tener conto delle diverse etnie e dei diversi credi religiosi delle popolazioni medio orientali, ma non è la ragione ultima dell'attuale conflitto che, come detto, ha radici ben più vicine temporalmente. Più che alle spartizione di fine 1800 e alla questione dei 'mandati' del 1919, sarebbe giusto guardare ai diversi conflitti che hanno insanguinato il Medio Oriente negli anni '60, trasportando la religione sul piano dell'opportunità ideologica e politica. E infatti, l'obiettivo del sedicente Stato islamico è quello di allontanare l'occidente dai territori d'interesse strategico, come per esempio la Siria, in modo da ottenere il controllo dei preziosi giacimenti di petrolio e di aree militarmente strategiche. Per far questo, il Califfato opera su due diversi livelli: uno interno, cercando di compattare la Umma, cioè la Comunità di fedeli, intorno al messaggio di potenza di uno Stato islamico forte e giusto perché basato sui principii del Corano; un altro esterno, attuando una strategia del terrore volta ad allontanare la presenza occidentale dai teatri di guerra. In quest'ottica dovrebbero esser letti i sanguinosi eventi che hanno colpito Parigi. L'errore fondamentale di chi si lancia in improbabili analisi, fondate spesso sulla mera dietrologia e inficiate dal vulnus della retorica da retrobottega, è quello di confondere i mezzi con i fini. Lo Stato islamico, o Daesh o al Dawla, per essere più corretti, non è figlio dell'occidente, bensì è stato generato da ben precise correnti ultraconservatrici del pensiero islamico sunnita: il 'wahabismo' e il 'salafismo'. Ne è, per così dire, l'inevitabile conseguenza. La rincorsa "all'Islam delle origini", totalmente supposte nella mente dei fondamentalisti, porta al rigetto totale di ogni tentativo di modernizzazione. D'altronde, se la Legge è divina, Shar'ia, essa è fissa e immutabile. Al punto che ogni legge umana, Kanun, non può che concordare con essa. La profonda frattura interna all'Iraq, generata dallo sconnesso e avventuristico intervento militare a guida statunitense del 2003, ha lasciato crescere 'schegge' fondamentaliste che poi, complice la congiuntura geopolitica favorevole con la guerra civile siriana, hanno portato l'Isi (questo il nome 'primitivo' del Califfato, ndr) a diventare sempre più potente, consentendo a un'organizzazione terroristica, per la prima volta nella Storia, di controllare un esteso territorio e di dotarsi di un 'protostato' o di uno 'Stato-guscio'. Si possono quindi trarre due conclusioni: la prima è che l'occidente è semmai colpevole di non aver previsto un 'dopo Saddam', non certo di aver finanziato il Daesh, come si legge in qualche post sui social; la seconda, è che l'obiettivo primario del terrorismo, di qualunque matrice, non sono le masse, bensì le élite politiche, che intende influenzare attraverso azioni violente. Una strategia fallimentare, data la fermezza con cui i Governi colpiti si sono sempre mossi. Il terrore, quindi, è un mezzo, non un fine. Il fine ultimo di al Dawla è quello di governare la Umma sunnita attraverso un'ottusa e letterale interpretazione del Corano, infliggendo ai "Governi crociati" più danni possibili ed eliminando fisicamente i 'pagani', ovvero qualunque religione non sia del 'Libro', a partire dal mortalmente odiato ed eretico 'Corano sciita'. I fatti di Parigi, nella loro tragicità, per quanto possano sconvolgere l'opinione pubblica non scalfiranno di una virgola la determinazione del Governo francese di distruggere l'Is. In tal senso, il terrore ha già perso. L'ultimo gruppo, invece, è composto dai critici di Oriana Fallaci, la "nera cornacchia" che in tanti citano a sproposito per giustificare titoli improponibili e campagne fomentatrici d'odio. Sarebbe d'uopo ricordare a questi esperti di giornalismo che Oriana Fallaci ha raccontato l'Islam in molti articoli e non solo ne 'La Rabbia e l'Orgoglio', il quale ha infiammato le coscienze dei più agguerriti pacifisti incapaci di comprendere il messaggio ivi contenuto semplicemente perché sprovvisti degli adeguati mezzi per comprenderlo. Quando scrisse l'articolo incriminato, la Fallaci aveva 72 anni e si era confrontata con il mondo dell'integralismo islamico in più di un'occasione: basti pensare a quelle che forse sono le sue interviste più famose, quelle a Yasser Arafat e all'Ayatollah Khomeyni, in cui l'integralismo radicale veniva ridicolizzato nelle sue infinite contraddizioni. 'La Rabbia e l'Orgoglio' fu solo il punto terminale della riflessione di una donna stanca e malata, un modo estremo di smuovere le coscienze intorpidite e inconsapevoli dei mutamenti che investivano l'oriente e che lei aveva ben chiari. Di certo, non si parla di una donna dal carattere facile. Ma Oriana Fallaci, avendo vissuto sulla propria pelle gli orrori della seconda guerra mondiale e del conflitto in Vietnam, tutto poteva essere fuorché una 'guerrafondaia'. A chi si permette di giudicare la vita e il pensiero di un autore, chiunque esso sia, o di formulare complesse e bislacche teorie geopolitiche pur non avendone le competenze, l'invito è quello di informarsi e leggere, leggere e ancora leggere.


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