Francesco ManciniHo fatto tante ascese in tutti questi anni. Tutte hanno sempre tante cose da raccontare, ma alcune più di altre. Questa è una di quelle. Sapevo che la prossima sarebbe stata impegnativa e che avrebbe richiesto molto impegno, sia fisico, sia psicologico. Per cui, come sempre accade, già durante la settimana c’è tutta una preparazione cartografica, fotografica, fisica e di concentrazione per arrivare pronti al giorno fatidico. Ormai, non mi accontento più di quelle semplici, visto sia il costo economico del viaggio, sia il problema familiare, che comporta il mio allontanamento per un giorno in montagna. Per cui, cerco di sfruttare al massimo la giornata. Non bisogna mai andare in montagna da soli, soprattutto su particolari vette e in certe condizioni in cui puoi trovare la montagna stessa ma, dopo vari tentativi, trovare altri grandi appassionati preparati e disposti a realizzare le mie impegnative e lontane vette è difficile, se non impossibile. Motivo per cui decido di andare da solo lo stesso, confidando sempre nel mio grande entusiasmo, che porta in questi casi alla completa realizzazione di se stessi, soprattutto quando le proprie condizioni di vita e lavorative non lo hanno concesso. Quello che scrivo può sembrare esagerato: sembra quasi che si vada in Tibet. Ma nel mio piccolo, anche se in solo giorno, ci sono luoghi che ti portano ad affrontare condizioni simili. Infatti, questa traversata ha comportato un dislivello complessivo in salita di 1917 metri e un percorso chilometrico di quasi 18 Km, molti dei quali fatti su neve inaspettatamente alta, considerando fosse maggio inoltrato.  Chiedo indicazioni alla barista, sui 25 anni paesana, circa il percorso che porta a Guado Sant’Antonio (unica strada sopra il Paese, che si dirige sotto la montagna): ovviamente non sapeva dove prenderla. Ma la cosa più incredibile è che questa ragazza non conosceva neanche l’orario di apertura delle Terme che sono lì accanto, unico motivo per cui quel paese ancora non è stato abbandonato dai giovani, in quanto porta lavoro. Ma è normale: in Abruzzo è così dappertutto. Riparto un po’ preoccupato, poiché si è alzato un po’ di vento che, alle quote che dovrò raggiungere, potrebbe comportare la rinuncia alla salita. La strada che sale al guado di Sant’Antonio, a quota 1145 metri di altezza, è una carreggiata a una sola corsia. Stretta e dissestata, non ha protezioni laterali, per cui bisogna fare molta attenzione, altrimenti si va di sotto, se va male. Sono abituato a queste vecchie mulattiere, asfaltate e poi abbandonate: sono tutte così. La mia fortuna è che ancora esistono, purtroppo, anche la loro manutenzione è scarsa, per cui fra qualche anno saranno impraticabili. Ma siamo in Italia: non si guarda mai oltre, se non c’è un interesse economico. Arrivo a destinazione per quella che sarà una traversata dalla base più occidentale della catena montuosa della Majella, che guarda verso la valle dove l’autostrada porta a Pescara e a Chieti. Come quasi tutti i sentieri dei nostri parchi abruzzesi, il sentiero è ben segnato fino al rifugio, che in questo caso si chiama Barrasso a quota 1542 metri, poi più nulla. Non è un problema, in quanto per raggiungere la prima cima bisogna seguire la dorsale che porta in quota per cui, in assenza di nebbia o nuvole basse e di certo sempre sapendo dove andare, è facile, a parte la fatica, arrivare in quota. Arrivato sui 1800 metri circa, le prime avvisaglie di neviere rendono più bello il paesaggio per il contrasto del bianco con l’azzurro del cielo e del verde acceso dei faggi, che sono rinati dopo l’inverno. Dopo 2 ore di cammino, raggiungo il punto più alto della montagna chiamata Rapina, a quota 2027 metri. Un omino di sassi con un bel bastone la identifica, ma per renderle omaggio del mio passaggio orno il bastone con delle bandierine colorate, simbolo della preghiera tibetana, utili inoltre alla identificazione della cima da lontano per i prossimi esploratori. Da qui in poi, la prossima vetta sarà molto più difficile, sia per il dislivello che dovrò affrontare (fino 2657 metri), sia per il ripidissimo pendio di cresta, sia per la neve che già vedo. Le prime avvisaglie già ci sono, a causa dei pini mughi che rendono difficoltoso il mio cammino. Fortunatamente, la neve in alcuni punti li ha sotterrati. Pertanto, ho degli spiragli dove passare. Anche perché passare sotto, di lato, sul traverso innevato a nord, è pericoloso. Passare dall’altra parte mi allontanerebbe troppo. Dopo aver oltrepassato la barriera inizio la ripida salita per quasi 200 metri di dislivello. Si va abbastanza bene, ma a quota 2300 metri inizia la neve. Essendo neve primaverile è molto morbida è, da subito, vedo che affondo molto, troppo. Avendolo previsto, mi ero caricato sullo zaino le ‘ciaspole’, che mi salvano da una bella fatica. Arrivato a quota 2400 metri, la cresta si fa via via sempre più affilata e tutto si trasforma. Quello che d’estate è più semplice, in una situazione completamente invernale diventa molto più difficile. A sinistra, cornici di neve impediscono il passaggio sopra di esse; a destra, il ripido pendio rende pericoloso il passaggio. Mi rimane poco spazio di cresta sicuro, per cui prendo subito i ramponi e li metto, affinché la mia presa sia salda rispetto alle ‘ciaspole’. Il problema è che c’è talmente tanta neve che si affonda fino al ginocchio. Percorrere una cresta per 200 metri di dislivello fino al ginocchio è molto, molto faticoso. La piccozza sprofonda fino alla punta, per cui i punti di appoggio sono pochi. Mi faccio coraggio e proseguo, anche perché tornare indietro ora sarebbe ancora più faticoso, visto il già grande dislivello percorso quasi 1200 metri. E ti accorgi di questo guardandoti indietro. Arrivo a 2500 metri, ma ogni volta che credi di essere arrivato a un punto meno ripido in realtà, svalicando, si ricomincia con un nuovo pendio. Nel frattempo, si presenta un nuovo problema: i miei piedi hanno scarponi da alta montagna, ma non da alpinismo puro, per cui la loro tenuta sotto tanta neve non è ottimale. Sono già 2 ore che tutto lo scarpone è sotto la neve. Inizio a sentire a entrambi i piedi il classico sintomo di inizio di assideramento, che si manifesta per il momento solo sulle 5 dita. Quindi per non peggiorare la situazione, mentre affondo la gamba cerco di muovere tutti i polpastrelli. Neanche la vista ti aiuta. Non scorgi neanche la croce, che psicologicamente è di grande aiuto. La volontà però è ferrea. La montagna ti insegna che non ti devi arrendere. Quanto questo mi sia servito nella vita, solo io lo posso sapere. Finalmente, svalico a 2600 metri. Tutto cambia di nuovo. La parte sommitale è quasi rotonda e non essendoci più pericolo mi tolgo di nuovo i ramponi per rimettermi le ‘ciaspole’. Il vento a quelle quote inizia a farsi sentire notevolmente. Stranamente, non riesco a trovare il punto più alto, identificato con un ceppo altimetrico, per cui vago per la grande montagna senza meta. Finalmente, lo trovo: era completamente spostato dalla parte opposta rispetto al mio punto di osservazione. Anche la foto di rito risulta di difficile fattibilità. Il vento forte mi fa cadere lo zaino dove, con il cavalletto apposito, regge la macchinetta. Da lontano intanto vedo un gruppo di alpinisti che sta scendendo dalla cresta dell’Amaro, mia prossima meta, per arrivare alla base della Rava del Ferro. Per non perdere eccessivamente quota faccio numerosi traversi. Fortunatamente, non c’è bisogno di rimettersi di nuovo i ramponi. Ora la stanchezza inizia a farsi sentire tanto. Già ho fatto la bellezza di 1500 metri di dislivello. Ma la quota dell’Amaro, con i suoi quasi 2800 metri, mi affascina anche se l’ho raggiunta altre volte. La montagna è come una droga: quando arrivi, cerchi di trovare con lo sguardo un'altra montagna più alta. Volendo sarei potuto scendere per la Rava del Ferro. E, peraltro, avrei forse ottenuto un passaggio dai precedenti alpinisti per ritornare dalla parte opposta dalla montagna, dove avevo lasciato l’automobile. Sì, perché alla fine ho anche questo problema, non da poco, da affrontare. Come tornerò indietro? Lentamente, un passo alla volta, proseguo il cammino. Purtroppo, il tempo sta cambiando, non gravemente, ma sta cambiando. Anche un piccolo mutamento meteo diventa un nuovo problema da affrontare. Una veloce corrente ascensionale mi sta portando, da ovest, un folto gruppo di nuvole, che non sono però bianche. Lo senti subito a pelle: il cambiamento il vento diventa molto forte. Le raffiche a volte ti fanno claudicare nel cammino. Non incontro nessuno. Strano, perché comunque l’Amaro è sempre una meta ambita e la giornata era bella. Mentre mi avvicino alla croce mi affaccio sul ciglio, perché a vista dovevo cercare la rava che avrei dovuto scendere. Avedola studiata sulle foto, la trovo, ma devo dire la verità un po’ mi spavento. E’ ripida e, soprattutto, devo trovare l’attacco migliore dove prenderla. Di certo non in quel punto. A strapiombo, con tutta quella neve, già so che devo farmi una Rava da 2800 metri, fino a 1700 metri di altitudine. Riprendo il cammino e arrivo alla croce. Non c’è tempo per fare quasi nulla: il vento è molto forte e non posso neanche farmi una foto. In più, l’ennesimo problema arriva puntuale, precursore della corrente ascensionale: la nebbia. Quasi non vedo più il bivacco Pelino, che però so che sta lì. Una grande pensata fare un bivacco a quella quota. Mi rifuggo dentro. Qualche cretino aveva lasciato in passato la porta aperta, per cui all’interno, per metà bivacco, c’è uno strato alto di neve completamente ghiacciato. Tuttavia, per il momento qualsiasi cosa andava bene. Sono talmente stanco che non ho fame, ma qualcosa mando giù. Anche perché il pensiero fisso è fuori. Mi chiedo: e se la nebbia rimane? Come faccio a trovare l’attacco della rava della Giumenta Bianca (chiamata anche ‘Direttissima’) per scendere a valle? Mi tranquillizza il fatto che sono ancora le 4 del pomeriggio, per cui le ore di luce che rimangono ci sono. Per l’ennesima volta, mi tolgo le ‘ciaspole’ e mi rimetto i ramponi, fondamentali per quel che mi aspetta. Mi affaccio dai piccoli oblò, ma niente: la nebbia la fa ancora da padrona. Mi bevo con molto piacere il thé caldo che mi ero portato da casa, veramente una ‘mano santa’. All’improvviso, uno spiraglio di luce illumina l’interno del bivacco. Capisco che è il momento. Ero, ovviamente, già pronto. Mi metto il giubbotto doppio del completo invernale per affrontare il vento forte, che sibila con rumori sinistri intorno alla cupola di ferro che mi protegge. Un colpo di fortuna mi aiuta: alcune orme che venivano dal ciglio di un lato della Rava mi fanno presupporre che qualcuno sia salito da quella parte. Le seguo e scopro che i miei sospetti sono fondati: sono saliti proprio di lì. Facendo il ‘traverso’, hanno guadagnato quota faticando di meno. Controllo se la neve tiene e mi avventuro. Da subito, mi accorgo che la discesa sarà molto più faticosa del previsto, sia sul traverso, sia dopo la ‘sella’, nel punto più ripido della discesa, con una pendenza, credo, di circa 40 gradi di pendenza. Sprofondo nella neve fino a dopo il ginocchio, in alcuni punti fino a metà coscia. Posso assicurare che fare quasi 500 metri di dislivello in discesa, in queste condizioni, è veramente faticoso, al di la del pericolo incombente rappresentato, a vista, dalle numerose slavine che si sono succedute all’interno della rava. Solo quando ti trovi dentro una rava e vedi tutte quelle valanghe capisci del pericolo che incombe su di te, anche se sono tranquillo per il fatto che fa freddo e che non c’è sole. Certo non è una garanzia, ma aiuta. La discesa per la rava dura quasi 1 ora. Ma proprio mentre pensi che è andato tutto bene, ecco che succede quello che non ti aspetti: con lo sprofondamento delle gambe dentro la neve, le ‘ghette’ si sono completamente abbassate. Ma cosa più pericolosa, il laccetto che le stringe è uscito fuori. Come insegnano i manuali: mai lasciare laccetti vicino ai ramponi. Puntualmente, il caso decide che il laccetto s’infili nei ramponi e mi fa cadere. Per non scivolare giù, anche se il pendio non è estremo, il ginocchio compie un movimento innaturale e si sente un piccolo "crac". Mi accerto se sono in condizioni di continuare. Fortunatamente sì, ma capisco che mi sono fatto male e che, a caldo, non sento tanto dolore. La base della rava è raggiunta. Ora, come sapevo, un altro problema da affontare si presenta ai miei occhi: devo attraversare il bosco di faggi, a quota 1700 m, inestricabile, che mi porterà a valle. All’inizio, con l’esperienza, riesco a cavarmela. Il problema è che, scendendo, sono andato troppo fuori versante. Me ne accorgo perché dentro al bosco trovo un paletto indicante ‘Lama Bianca’. Devo spostarmi più verso quello che sarà la mia meta: il rifugio di Passo San Leonardo. Il cammino nel bosco fitto è lungo. E ogni tanto trovo dei vecchi segni giallo-rossi. Compongo per il futuro degli ometti di pietra, affinché altri trovino il sentiero più facilmente. Piano piano vedo spuntare la valle, illuminata dal sole che sta tramontando. E’ finita: sono finalmente arrivato sulla strada asfaltata, che negli ultimi chilometri mi porterà verso quella che, spero, possa essere una soluzione a quello che potrebbe, tuttavia, diventare anche un grosso problema: troverò qualcuno che, armato da umana pietà, mi riporti indietro? Ovviamente, m’ero premunito e, sapendo della possibilità di un aiuto da parte del gestore del rifugio, avevo telefonato qualche giorno prima per avvertirlo. Il signor Guido Maiorana  (84 anni!) si era detto disponibile solo ad alcune condizioni di gestione del rifugio che, fortunatamente per me, si sono avverate. Salgo sul ‘suv’ del gestore che, sorpreso dalla mia conoscenza dei luoghi, mi lascia al punto di partenza, mentre il sole ormai è tramontato. Un lungo viaggio di ritorno mi aspetta, con le mie membra stanche per l’avventura realizzata e con la preoccupazione del ginocchio infortunato che purtroppo mi farà stare lontano dalle mie montagne per molto tempo. La mia mente, quindi, volerà a ricordare i prati verdissimi della primavera illuminati dai fiori gialli, che specchiandosi sugli alti bastioni innevati hanno dato un senso alla triste vita cittadina che siamo costretti a vivere.


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Luigi - Pescara - Mail - lunedi 22 settembre 2014 18.24
Complimenti. Bell'articolo.


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