Giuseppe LorinPer i mondiali di calcio l’abbiamo vista a  São Paulo do Brasil, tra le favelas intorno all’area urbana della grande metropoli latino-americana, a intervistare i diseredati che denunciavano lo spreco di denaro per l’evento sportivo internazionale. Nei mesi precedenti, invece, era in Ucraina, dove i filorussi continuano a fare i prepotenti con mazze e bastoni contro il popolo che vuole l’indipendenza dalla Russia di Vladimir Putin e cercano di ribellarsi a fantomatici personaggi politici doppiogiochisti. Nell’agosto del 2013, a Maidan Nahda, la giornalista inviata speciale di Rainews 24, Lucia Goracci, era sul palco insieme al figlio di Mohamed Morsi, Omar Fathy e Mahmoud Zwahre. Fu impossibile non nascondere l’apprensione di tutti gli spettatori che, vedendo la determinazione professionale profusa nel servizio televisivo girato sul palco in cui si trovava, rendeva ancor più drammatico quel momento. Il popolo egiziano si chiedeva dove sarebbe finito il proprio voto. Così come, ancora oggi, tutti noi ci chiediamo come sia stato possibile modificare un consenso popolare raggiunto con una votazione espressa in seggi legali. Il clima è sempre più rovente a Il Cairo: il portavoce dei Fratelli musulmani bolla il Governo ad interim come “illegittimo” e conferma che i manifestanti rimarranno in piazza Rabaa e Nahda. La presidenza afferma che la fase degli sforzi diplomatici si è conclusa e che ritiene i Fratelli musulmani responsabili del fallimento. Oggi, apprendiamo che il Tribunale egiziano di Minya ha confermato le condanne a morte per 183 presunti sostenitori del deposto presidente islamista, Mohamed Morsi, fra cui quella del capo dei Fratelli musulmani, Mohamed Badie. La Costituzione di ogni nazione e le leggi internazionali tutelano il diritto di cronaca, che si esplica nella professionalità giornalistica del reperire informazioni esprimendo le proprie opinioni e impressioni, avulse da qualsiasi tendenza politica. La comunicazione di un evento deve, in ogni modo, stimolare la riflessione e il giudizio di chi apprende la notizia. Il diritto di cronaca continua a essere violato, con giornalisti che vengono aggrediti, incarcerati e spesso uccisi per aver avuto il coraggio di raccontare le avversità politiche locali, le atrocità della criminalità, la sfrontatezza del più forte. È di pochi mesi fa l’invasione che le forze russe hanno compiuto a discapito dell’Ucraina. E Lucia Goracci era lì, a sottolineare l’ingerenza del Cremlino, mentre le ‘stelle’ stavano a guardare. Dopo gli Stati Uniti e l’Italia, l’Iraq si rivolge anche alla Russia per ampliare il proprio arsenale militare: c’è da rispettare un contratto da 4,2 miliardi di dollari, siglato dal primo ministro russo, Dimitri Medvedev e da quello iracheno, Nouri al Maliki. Per tutti noi, Lucia è ormai un volto familiare, una giornalista in prima linea che entra quotidianamente nelle nostre case con le news dal fronte di qualsiasi sommossa. A Catania, nello specifico in quel di Santa Venerina, nel novembre 2013 ha ricevuto il Premio internazionale di giornalismo ‘Maria Grazia Cutuli’, giunto alla IX edizione, per il coraggio della sua libera informazione dai territori di guerra. Maria Grazia Cutuli era l’inviata del ‘Corriere della Sera’ uccisa insieme ad altri tre colleghi in un agguato in Afghanistan, il 19 novembre del 2001. Il premio è dedicato alla sua memoria. Lucia Goracci, Marc Marginedas e Laura Silvia Battaglia sono stati i tre giornalisti vincitori del premio internazionale assegnato dalla ‘Fondazione Cutuli Onlus’. E’ stato conferito, inoltre, un premio speciale del presidente della Fondazione, il direttore del ‘Corriere della Sera’, Ferruccio de Bortoli, a Elvira Terranova. Per completezza d’informazione, si ricorda al mondo che il giornalista Marc Marginedas, inviato in zone di guerra di ‘El Periòdico de Catalunya’, lo scorso mese di settembre è stato sequestrato in Siria da un’organizzazione ‘jihadista’ e il suo premio è stato ritirato, per lui, dal direttore della testata per cui collabora, Enric Hernandez.

Lucia Goracci, dagli scenari di guerra in prima linea, alle comunicazioni per Rainews 24: non si sente una paladina di giustizia?
“Assolutamente no: lasciamo i paladini alle bellissime gesta dei pupi che in Sicilia - per rimanere nella terra da voi citata in questo articolo - tanti bravi cantastorie ancora rappresentano. Io, come inviata, ho un compito: avvicinarmi il più possibile là dove gli eventi accadono. È chiaro che nel nostro lavoro c’è un’enorme tensione morale e se, con la nostra ricostruzione dei fatti, il più possibile onesta, riusciamo a veicolare giustizia, la sera ci addormentiamo con un po’ di pace nel cuore, a dispetto di quel che, durante il giorno, ci è toccato vedere, che non sempre si assorbe con facilità”.

La percezione dei cambiamenti epocali in atto in tutto il mondo come viene vissuta da una giornalista vincitrice del premio Ilaria Alpi e, oggi, del premio internazionale di giornalismo dedicato a Maria Grazia Cutuli?
“Se la domanda si riferisce alle tecnologie che consentono il fenomeno del ‘citizen journalist’, del giornalismo di prossimità, nutro per esse un entusiasmo scettico. L’informazione che arriva da Facebook, Twitter, Youreporter ha un pregio innegabile: smaschera la menzogna dei regimi, le cui televisioni di Stato, sino a non molti anni fa, erano l’unica fonte di ‘notizie-video’. Adesso, il presidente siriano Bashar el Assad può anche provare a raccontare di aver mandato l’esercito in strada contro dei “terroristi”: se poi, mezz’ora dopo, iniziano a circolare sui social network le immagini di donne aggredite, bambini feriti, gente inerme vittima della repressione, l’inganno è smascherato. E ciò è uno straordinario, inedito strumento di libertà. Ma attenzione: il ‘citizen journalist’ è un ‘partisan journalist’. È di parte, sempre. Anche quando non vuole esserlo. Anche quando non sa di esserlo. Il giornalista, il buon giornalista, è neutrale sul campo di battaglia. La qual cosa non significa essere ‘asettico’, né privo di passione: è semplicemente un uomo, o una donna, in accanita, inesausta, ricerca della verità storica. Forse non ci arriverà mai, ma la sua indefessa ricerca è quanto di più vicino vi possa essere alla corretta informazione”.

Libertà di stampa e comunicazione globale: i leader del mondo islamico sollecitano restrizioni ai contenuti che offendono e diffamano la religione. La sua riflessione in merito?
“La libertà di espressione è fondamentale nell’uomo, ma occorre usarla con sensibilità. Occorre avere sempre buon senso nell’evitare atteggiamenti di libertà personale che, presso altre culture o fedi religiose, possano suonare come provocazioni. Non costa molto e il risultato è straordinario. Sono contro le ‘fatwe’ che maledicono i libri, ma anche contro le t-shirt con le vignette di Maometto provocatoriamente esibite come un insulto. Sono entrambe dannosissime”.

Ormai il progresso tecnologico rende libera l’informazione e l’espressione delle proprie idee si concretizza sempre di più. E’ questo il potenziale di cambiamento rappresentato dalla rivoluzione dell’informazione: stare al passo del tempo, il passaggio dal virtuale al concreto, dal sogno alla realtà per la conquista della libertà?
“La libertà è una conquista personale: ho sempre diffidato delle filosofie, delle visioni del mondo che promettono libertà collettiva. La conquista della libertà, delle libertà, è un processo lungo e doloroso, ma quando il ‘genio’ salta fuori dalla ‘lampada’ è difficile che lo si possa rimettere dentro. Tornare nella Libia in preda al caos due anni dopo la rivoluzione dà pena a quanti, in quella rivoluzione, avevano creduto. Ma sostenere che fosse meglio Gheddafi è un falso storico: è come voler dire che certi popoli sono strutturalmente inabili alla democrazia. Un neo-orientalismo colpevole e superficiale: non fa per me…”.

Lucia Goracci: il suo impegno nel sociale?
“Considero il mio lavoro e il modo di declinarlo un impegno anche sociale. Il resto fa parte del mio privato: non amo farne una bandiera”.

Una riflessione sui fatti più recenti di politica interna: le tangenti, la corruzione e il clientelismo sono una realtà solo italiana?
“Sono un male non solo italiano, ma certamente italiano. Segno di una profonda immaturità civile, di scarso sentimento del bene comune, di indifferenza verso i diritti dei nostri concittadini. Se io non pago le tasse, tu ne pagherai di più: è elementare. Ed è solo un esempio. E’ per questo che amo maggiormente muovermi all’estero: non perché altrove corruzione e clientelismo siano assenti, ma forse mi fanno meno male”.


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