Johann Rossi MasonQuello ha ‘una memoria da elefante’: quante volte lo abbiamo sentito dire? Ma perché gli elefanti avrebbero una memoria più potente di altri animali? E’ davvero così? In realtà questi grandi mammiferi se la battono in tema di capacità di ricordare con i cetacei, le grandi scimmie e, guarda caso, anche con noi umani. Oggi sappiamo che la capacità di ricordare è legata alle emozioni (ricordiamo più facilmente se un fatto è legato ad un’emozione) e ancor di più all’empatia ossia alla capacità di mettersi nei panni dell’altro. Se ormai sono stati svelati i segreti dei cosiddetti ‘neuroni specchio’ identificati tra l’altro da uno scienziato italiano, da pochissimo si indaga su una classe di neuroni chiamati ‘Ven’ dal nome del loro scopritore, Constantin Von Economo, che fu il primo nel 1926 a fornirne la prima descrizione dettagliata e la localizzazione. Si tratta di grandi neuroni fusiformi presenti nella corteccia ‘frontoinsulare’ e in quantità inferiore nella corteccia cingolata anteriore, specializzati nella trasmissione di informazioni legate al comportamento sociale ad alta velocità e su lunghe distanze. In pratica percepiscono gli stati fisiologici dell’organismo e li elaborano sotto forma di processi di decisione. L’aspetto interessante è che questi neuroni sono presenti solo nelle specie con il cervello grande - modestamente… - e che si attivano in presenza di stimoli sociali negativi come colpa, imbarazzo o risentimento, ma si attivano anche quando il soggetto non sia direttamente coinvolto ma provi empatia per un membro del branco. La scoperta della presenza di questi neuroni negli elefanti è ben descritta nello studio di Hakeem (Von Economo Neurons in elephant brain – The anatomical record – 292;242-248:2009) mentre negli umani Tania Singer ha scoperto che ci immedesimiamo negli altri quando soffrono grazie all’attivazione dell’insula anteriore, zona che probabilmente non vi dice nulla ma che è quella con cui percepiamo il nostro stesso dolore. I neuroni ‘Ven’ non solo si attivano - esattamente come negli elefanti - in situazioni spiacevoli come rabbia e afflizione (ma anche in situazioni piacevoli come le cure parentali, le coccole e l’amore) ma sono in grado di marcare un evento come importante e concentrare la nostra attenzione su di esso in modo da reagire adeguatamente in maniera estremamente veloce. Una sorta di autostrada cerebrale che coordina le nostre emozioni con quelle degli altri individui del nostro ‘branco’, umano o animale che sia. E in alcune situazioni patologiche come demenza, autismo, Alzheimer e schizofrenia risultano inattivati. Purtroppo, sembra che questi neuroni rischino di essere ‘fuori moda’ in un’epoca in cui spesso la gente dimostra indifferenza per la sorte immediata dei propri simili. Si tratta di un circolo vizioso: siamo talmente assorti nei nostri pensieri (e nei nostri smartphone) che non prestiamo attenzione agli altri, quindi rimaniamo isolati e non abbiamo la possibilità di provare empatia. Il paradosso è che però siamo capaci di commuoverci davanti ad un film, nel buio di una sala o del nostro salotto. Perché? Perché in quel momento siamo totalmente attenti e dedicati a quel che accade sullo schermo. Le persone in cui queste aree cerebrali sono troppo attive rischiano di rimanere troppo coinvolte nel dolore altrui, di rimanere invischiate. Succede ad esempio nelle professioni di aiuto in cui si può verificare uno stato chiamato ‘stanchezza della compassione’, ma rischia anche chi si protegge dalla sofferenza anestetizzando i propri sentimenti, magari girando la testa dall’altra parte. Il problema è che sottraendosi continuamente alle emozioni di rischia di erodere e ‘spegnere’ la capacità di provare compassione per gli altri e rimanere vittime di una desolante indifferenza. Come spesso accade, se non utilizziamo un organo o una funzione questa si atrofizza.




(articolo tratto dal blog www.sestopotere.blogspot.it)
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