Clelia Moscariello‘Fight club’ di David Fincher è un film del 1999 tratto dall’omonimo best seller ‘noir surreale’ di Chuck Palahniuk, un geniale giornalista ‘free lance’ americano che negli anni ’90 del secolo scorso ha stupito il mondo con il proprio stile onirico e visionario. Proprio in questi giorni, presso il Teatro Trastevere di Roma, una giovane compagnia teatrale, le ‘Cattive compagnie’, stanno proponendo al pubblico, con grande successo – le repliche di questo spettacolo sono previste sino al prossimo 23 marzo 2014 - un’inedita versione teatrale di quest’opera, riadattata e ben diretta dal giovane Leonardo Buttaroni. ‘Fight club’, infatti, è una vicenda che non lascia indifferenti, assai attuale sotto il profilo sociologico, poiché produce un effetto ‘catartico’, che ci costringe a confrontarci con la schizofrenia insita in ognuno di noi. Perché non è soltanto Edward Norton, che si cala nel suolo di Jack - il protagonista - a essere schizofrenico e a risolvere le proprie contraddizioni con l’aiuto di un ‘alter ego’, ma è la storia in sé a esaltare il lato grottesco della realtà, come se l’assurdo fosse l’unica soluzione a disposizione dell’individuo per riuscire a sopravvivere di fronte al pericolo dell’alienazione impostaci da una modernità forzata e stressante. La follia rappresenta, paradossalmente, la nostra parte sana, poiché lascia emergere quel lato oscuro, fondamentalmente ribelle e creativo, che non si arrende alla mediocrità della società occidentale, dove apparentemente non manca nulla, ma nella quale sempre più spesso non ci sentiamo altro che dei ‘numeri’. Jack è il classico uomo americano sulla trentina stressato, depresso dal lavoro, contornato da tanti beni voluttuari prodotti da una società consumista malsana e depistante. Comincia a frequentare le terapie di gruppo, prima alcune, poi tutte, come se per sentirsi vivo dovesse sentirsi parte, per forza, di un insieme di malati. In questi centri incontra l’unico personaggio femminile del film, una donna surreale e ironica dal nome Marla (interpretata, nella versione cinematografica di David Fincher, da Helena Bonham, premiata come miglior attrice britannica all’Empire Awards 2000) con la quale vivrà una storia piuttosto ‘bizzarra’. Ma la vita di Jack ‘svolta’ repentinamente in meglio quando quest’ultimo incontra Tyler Durden, che lo instrada verso la liberazione psichica attraverso, appunto, i ‘Fight club’, luoghi di incontri di boxe clandestina nei quali più avvertirà dolore fisico, più Jack si sentirà di nuovo ‘vivo’, rinato, quasi guarito. Il problema incombe quando Tyler Durden, che nel frattempo è diventato la sua ‘ombra’, dà vita al progetto ‘Mayhem’, una sorta di setta terroristica contraria ai simboli del capitalismo. Celeberrimo il motto, tra le tanti frasi memorabili del libro e del film: “Le cose che possiedi, alla fine ti possiedono…”. Non si tratta di una visione apocalittica, bensì affronta quelle quesitoni psicologiche che in realtà sono alla base del nostro attuale malessere, in cui il principale segno di riconoscimento tra le persone dipende eccessivamente dal possesso delle cose, persino dal condizionamento e dal potere psicologico che si riesce a imporre nei confronti del prossimo. Il punto di vista di Palahniuk è tutt’altro che protestatario, bensì rappresenta una visione liberale e ‘liberante’ nel merito di un Io interiore che dovrebbe essere il principio di fondo della nostra società, la quale viene invece investita da possenti condizionamenti interiori e subliminali fondamentalmente carichi di micidiali rischi autodistruttivi. Più che un ‘noir surreale’, come è stato spiritosamente definita quest’opera, siamo in realtà di fronte a un thriller psicologico, quasi psicanalitico, che spiega assai bene la società attuale, in cui la ‘surrealtà’ rappresenta solamente una conseguenza esogena, il sintomo della patologia, non la causa. E’ infatti questo continuo confondere le cause con gli effetti, a produrre un malessere collettivo ormai divenuto ammorbante, poiché profondamente immerso nella mediocrità di massa.


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