Tra gli alibi politicamente più corretti per non affrontare l’argomento della riforma del sistema previdenziale c’è quello secondo il quale l’afflusso degli immigrati extracomunitari costituirebbe la ciambella di salvataggio per le nostre pensioni. L’argomento è insidioso, perché permette di accantonare due problemi altrettanto esplosivi quali la riforma del sistema previdenziale e le politiche di selezione, ma poi anche di autentica accoglienza, degli immigrati. Ora l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) smonta queste illusioni buoniste. Un recente rapporto di Jonathan Coppel, Jean-Christopher Dumont e Ignazio Visco (“Trends in Immigration and Economic Consequences”) dimostra infatti come i flussi migratori non possono in alcun caso fornire una soluzione ai problemi di bilancio legati all’invecchiamento della popolazione”. O meglio, potrebbero anche fornirla, a patto però che i flussi migratori fossero di dimensioni straordinariamente superiori a quelli attuali e, in pratica, ingestibili: per compensare l’invecchiamento della popolazione, infatti, l’Europa dovrebbe accogliere 20 milioni di lavoratori all’anno fino al 2030. La popolazione europea raggiungerebbe così nel 2050 la cifra impressionante di un miliardo di persone, coi risultati prevedibili in termini di accesso al Welfare, di esplosione della spesa pubblica e di funzionamento dei meccanismi stessi di rappresentanza politica. Senza tenere conto del fatto che, già oggi e soprattutto in Francia, la maggioranza dei nuovi arrivi riguarda famiglie che si riuniscono e dunque non necessariamente nuova forza lavoro. Lo studio dell’Ocse non condanna affatto l’immigrazione che, governata, può svolgere una funzione utile, ma avverte che aprire indiscriminatamente le frontiere per non riformare le pensioni è un’illusione, pericolosa in primo luogo per i presunti “cavalieri bianchi” dalla pelle scura. Il nodo della crisi previdenziale, ricordano gli autori, sta in un semplice dato: la percentuale della popolazione compresa tra i 55 e i 64 anni di età ancora al lavoro è meno della metà sul totale e in certi Paesi scende addirittura sotto al terzo. Gli ex baby boomers, insomma, e i loro sparuti figli devono abituarsi all’idea di lavorare più a lungo. Né Europa, America del Nord e Giappone possono pensare di mettersi a posto la coscienza con il Sud del mondo accogliendo qualche centinaia di migliaia di lavoratori stranieri, per i più sempre meglio qualificati, la cui partenza quindi depaupera ulteriormente le prospettive di sviluppo dei Paesi di origine. È in quei Paesi che lavoro e sviluppo, ricorda l’Ocse, devono fiorire. E per questo occorre rompere le ultime barriere protezionistiche, servono mercati, infrastrutture, istruzione, sanità, sistemi di regole. In una parola, più globalizzazione, non più chiacchiere autoconsolatorie.


Tratto da Il Sole 24 Ore del 5/12/2001
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio